Francesco Fassbinder

Racconti, poesie, critiche di Francesco Santoro

domenica 25 gennaio 2015

La bicicletta - dedicato a Marco Pantani

Non era quello che si dice un gran giorno per me. Non so perché considerarlo tale. Fatto sta che decidemmo insieme a due amici di vecchia data di uscire in bici. Certo “uscire in bici” non sarebbe la definizione più appropriata, sarebbe meglio dire “coprire una distanza che superi i cinquanta chilometri in sella ad una bicicletta da corsa addobbati di tutto punto”. A vederci dall’esterno apparivamo come dei veri e propri ciclisti, del sabato, in questo caso, anche se in realtà non lo eravamo nemmeno al cinquanta per cento. Ognuno di noi ha un altro lavoro, e la passeggiata – non la corsa – non è per noi che un diversivo atto a farci respirare aria buona e a mantenerci in forma. Era vento di scirocco, e il sole faceva capolino di tanto in tanto tra le nuvole alte e grigie portate dal vento che a tratti ci faceva sbandare. Erano raffiche precise, determinate non a farci cadere, ma appunto a farci sbandare in un momento preciso, quando soprattutto ci allontanavamo l’uno dall’altro. Uniti in gruppo eravamo un branco resistente. Decidemmo così di cominciare la
nostra passeggiata controvento e raggiungemmo presto Monte Pizzuto – le forze non ci mancavano. Poi avvenne la discesa a favor di vento e poco prima di affrontarla perdemmo di vista, una volta e per sempre, Fabio. Io e Angelo ci guardammo e per un attimo ci balenò il dubbio se aspettarlo o meno, ma decidemmo sulla sommità della salita – o della discesa a seconda del punto di vista – di non aspettarlo. Non ce ne dispiacque, nessun rimorso, nessun senso di colpa, ci sentivamo, anzi, senza di lui, più leggeri, pronti per avventure inimmaginabili, senza la zavorra della sua presenza. Gli volevamo un mondo di bene, ancor ora resta intatto quel sentimento di fratellanza che ci accomuna. Io e Angelo affrontammo la discesa a tutta velocità. A quell’ora, le sette del mattino, il traffico era scarso e potevamo muoverci sulla strada asfaltata con tutta libertà. Ci alternavamo al comando, ma ero più io a disegnare le curve della Gravina che Angelo. Angelo è forte in pianura, è un passista. Io sono sì un discesista, ma me la cavo bene – meglio di lui – anche in salita. Fabio non fa testo, arranca, arranca sempre, chissà dov’era in quel momento. In quel momento quando del tutto imprevedibilmente svoltai a sinistra attratto da un caseggiato di vecchia costruzione. Non potevo più proseguire la strada maestra, si direbbe, chissà per quale motivo, ma in realtà il motivo era perché c’erano dei lavori in corso, forse a causa dell’allacciamento del gas, e la strada era interrotta. Svoltai così a sinistra e in men che non si dica – scorrevano così veloci le strette ruote sull’asfalto perfettamente asciutto – ci ritrovammo davanti al caseggiato che aveva il cancello accostato. Angelo decise di anticiparmi e io lo seguii, dopo un curatissimo vialetto, arrancando su per le scale di quella casa che appariva ad un primo sguardo ampia più del dovuto. Più di qualsiasi altro immaginabile comune appartamento. La sensazione profonda almeno per me era che per noi non ci sarebbe stata altra possibile strada percorribile a quell’ora di quel sabato in quelle condizioni. Dopo il primo pianerottolo su cui vidi dall’esterno di una grande finestra il cielo minaccioso, ma a est si apriva un ampio chiarore, dopo che ripresi fiato, proseguimmo lungo la seconda rampa di scale, Angelo mi anticipava di tre quattro gradini. Raggiungemmo la porta d’entrata, stranamente accostata anche quella. Mi accorsi in quel momento che Angelo aveva perduto o aveva posato chissà dove la sua bici, mentre io la inforcavo sotto il braccio destro ad altezza sella. È una superleggera per tanto non mi riusciva difficile trasportarla. Era stata l’altezza dei gradini a sfiancarmi. Entrammo. La casa appariva ad un primo sguardo disabitata, ma io sentivo che qualcuno l’abitava. I mobili di mogano intarsiati di astrusi disegni floreali, i soprammobili più disparati, i tavolini e le sedie dalle gambe ritorte erano perfettamente lucidi e spolverati. Ci inoltrammo nelle stanze della casa come in una giungla, di quelle che appaiono nelle illustrazioni dei libri per bambini. Raggiunto un balcone di una stanza da letto matrimoniale – Angelo mi anticipava sempre in silenzio col suo sguardo indagatore alla ricerca della strada – posai senza farmene accorgere da nessuno la bicicletta all’esterno, riparata dal balcone sovrastante. Fu un gesto così istintivo che neanch’io mi accorsi totalmente di averlo fatto. Una specie di fretta, di premura, m’impediva di soffermarmi su quello che facevo o vedevo, era la ricerca della strada per proseguire la nostra passeggiata. Giunti in cucina, dall’ampia vetrata – Angelo era già nella stanza successiva – scorsi una donna di mezza età accovacciata sotto un tavolo da giardino su una specie di ampio terrazzo, stava facendo pipì e mi guardò forse impaurita, forse no. Quella vista mi pose nella mente diverse domande del tipo, cosa ci sto facendo qui?, sarà lei la padrona di casa?, succederà qualcosa d’imprevisto?, domande sulle quali non mi soffermai più di tanto, procedendo nella ricerca. Nel frattempo avevo perso per un po’ le tracce di Angelo e mi inoltrai nelle stanze attigue. La casa appariva davvero immensa. Giunsi in una sala con un pianoforte a coda. Seduta su una piccola poltrona scura di pelle c’era una bambina molto carina con i capelli ricci che mi sorrideva maliziosamente avendomi visto prima che io potessi notarla. Mi sembrò di essere entrato in un dipinto di Balthus. Uscii dall’ampia sala silenziosamente, per non destare sospetti nella bambina vestita di neri merletti, con la gonna e le calze di nylon ricamate di fantasmagorici orditi. Quando uscì pensai che mi stesse ancora sorridendo con un po’ di bava sulle labbra e che le mancasse solo un lecca lecca fucsia fosforescente. Nell’ombra di quel sorriso uscii e mi ritrovai in una sala da pranzo non molto grande dove Angelo stava osservando una donna seduta ad una sedia di vimini. Erano in perfetto silenzio, si contemplavano. O forse lui contemplava lei, mentre lei pensava ad altro. Le stanze erano collegate le une alle altre attraverso aperture rettangolari senza porte, ma non si riusciva ad interpretare ciò che ci sarebbe stato aldilà. Entrai nella sala da pranzo e la donna prese la parola “benvenuti, qui non c’è tanto da cercare, c’è solo da perdere, ho fame, non vi rammaricate, farò come voi non ci foste”, poi si avvicinò al tavolino trascinando la sedia e cominciò a mangiare un uovo sodo immerso nel sugo di pomodoro. Ma l’uovo non lo toccò, inzuppava solo del pane nel sugo. Mi avvicinai e le chiesi se sapeva dove portava la strada che stavamo percorrendo. Certo apparivamo ai suoi occhi come due ciclisti abbigliati di tutto punto. Con i tacchetti sotto le scarpe.  Lei era alta e bruna, molto robusta, quasi giunonica si direbbe, assomigliava in un certo qual modo ad una mia ex a causa delle sue labbra pronunciate e gli occhioni neri ornati da lunghe ciglia, mi rispose “non ne ho idea”, infilzando l’uovo con la forchetta e con una certa aria di fastidio, quasi con rabbia. Fu così che ci scacciò dalla sua vista e ci ritrovammo di nuovo in cucina. Angelo sembrava avesse perso la lingua. Alla vista della signora che sembrava ci stesse aspettando, Angelo sparì senza ricomparire che qualche ora dopo tra la folla. La signora ricomposta dopo l’esperienza del tavolo da giardino mi disse con cortesia di abbandonare la casa, lì, nella loro casa non c’era nessuna strada maestra da percorrere. La ringraziai e uscii leggero dopo essermi soffermato sul rivolo di pipì all’esterno sul terrazzino. Scesi le scale con una certa velocità e raggiunto l’esterno in pieno sole – un sole timido, ma emanava pur sempre un po’ di tepore – mi ritrovai in preda alla disperazione. Avevo dimenticato la bicicletta. Risalii in tutta fretta le due rampe di scale cercai per tutta la casa, per ogni stanza e ogni balcone la bici invano. La mia bici da corsa era scomparsa. Proprio lì dove credevo di averla lasciata c’era un vaso di peonie. Chiesi informazioni alla signora e mi disse con un certo nervosismo, forse dovuto alla mia nuova visita, che non sapeva niente di biciclette da corsa. Ridiscesi le scale affranto. La mia bici era davvero scomparsa. Impiegai due ore nella ricerca invano. Fuori nel frastuono dei lavori in corso si era accumulata una nutrita folla di gente. Nessuno sapeva niente della mia bici, nè della strada che più tardi avrei potuto percorrere. Dopo un breve dibattito decisero di entrare tutti nel casolare alla ricerca della mia bici. Io restai fuori da solo a guardare i mutamenti del tempo e le formiche intorno alle mie scarpe. Ogni tanto usciva qualcuno e m’informava dell’assenza della mia bici “Qui non c’è” diceva, poi rientrava. Più tardi, chissà quanto tempo era trascorso, tutta la folla si accumulò sui balconi, anche su quelli degli appartamenti adiacenti, informandomi dell’assenza della mia bici. Il chiasso tra le urla della folla e il frastuono dei lavoro in corso era insopportabile. In un certo momento decisi sconsolato di ritornare a casa a piedi da solo. In quel momento apparve Angelo al mio fianco che mi disse “guarda lì”. “Cosa vuole quello?” risposi, c’era un uomo che si dimenava su un balcone all’estrema sinistra, con le braccia alzate per attirare l’attenzione su di sé. Quando gli feci segno con una mano, la folla si azzittì, il frastuono dei lavori in corso divenne più lontano. “Eccola qui la tua bici”, disse l’uomo, uno sconosciuto per me fino a quel momento – aveva dei fitti baffi e assomigliava a due miei ex compagni di uscite – si voltò e alzò in alto, sopra la sua testa la mia bici, che mi accorsi subito non era la mia bici. Angelo si fece spazio tra la folla, salì non senza difficoltà le due rampe di scale, raggiunse l’uomo e ne discese allegro allegro come un uccellino. “Lo sapevo non è la mia bici”, dissi, ma ero comunque contento perché la bici era identica. Ora vi spiego: era lo stesso tipo e la stessa marca e lo stesso colore della mia bicicletta: Bottecchia Podio, pedali Miche, cambio Mirage, ecc., ma era nuova, era identica, davvero la stessa, della stessa misura 58, che avevo comprato all’inizio della mia carriera da ciclista. Aveva ancora la sella e il manubrio troppo bassi per me e i cerchi originali. A differenza della mia originale aveva la scritta Podio sul tubo orizzontale intatta e non Odio con la P mancante a causa dello sfregamento del mio ginocchio sinistro e del sudore. Me ne contentai e decisi di apportargli col tempo le stesse modifiche recate in passato.

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