Nel suo ultimo film, in concorso
alla mostra del cinema di Venezia, Roman Polanski chiude quattro personaggi
all’interno delle pareti di un appartamento medio borghese di Brooklyn.
Il film, tratto dalla pièce
teatrale “Il Dio della Carneficina” di Yasmina Reza, opera già rappresentata
con successo a Broadway, adattata per il cinema dalla stessa drammaturga e dal
regista, si avvale della presenza di quattro attori di altissimo valore: Jodie
Foster nel ruolo di Penelope, la padrona di casa, bibliotecaria e scrittrice,
moglie di Michael, interpretato da Jonh Reilly, rivenditore di accessori per il
bagno, mentre Kate Winslet è Nancy, consulente finanziaria, moglie di Alan,
interpretato da Cristoph Waltz, avvocato di alto rango.
Lo spazio in cui si muovono i
quattro personaggi/attori è un ospitale appartamento newyorkese – in realtà
parigino – dal quale, dopo vari inutili tentativi i due ospiti non riusciranno
a uscire. Dall’appartamento lo spazio drammatico si ridurrà ai due divani e al
tavolino sul quale fanno mostra di sé alcuni cataloghi d’arte e un vaso di
tulipani gialli. Il motivo dell’incontro/scontro è il colpo in pieno volto
inflittogli dal figlio degli ospiti al figlio dei padroni di casa.
Nella prima parte del film, con
la volontà di risolvere la questione in maniera civile, i quattro fanno sfoggio
della conoscenza dell’intera enciclopedia delle convenzioni in un crescendo di
ostentate formalità che fanno presagire presto un’esplosione istintiva di
animalità, regresso all’infanzia e barbarie. Già dalla seconda parte viene
messa a nudo la falsa coscienza borghese della classe media non solo americana,
ma in epoca di globalizzazione dei costumi e dei comportamenti, anche europea,
mentre nella terza parte attraverso accuse reciproche, strenue difese della
propria posizione non solo sociale, alleanze insperate e trasversali,
l’esplosione della vera natura dei personaggi assume dimensioni parossistiche.
Le scene che fanno da perno tra
una parte e l’altra sono: nella prima quello dello sbotto di stomaco da parte
di Nancy sopra i cataloghi d’arte, nella seconda la scelta di Michael di
offrire agli ospiti – e non alla moglie – un drink, la terza il tuffo, nel vaso
di tulipani, perpetrato da Nancy a danno del telefonino del marito. Il climax
finale è rappresentato dalla scena in cui sempre Nancy – personaggio che più di
ogni altro tenta di nascondere la sua falsa coscienza del mondo e di sé, e che
ha, com’è ovvio, le reazioni più plateali -, butta in aria i tulipani, simbolo
dei buoni propositi dei padroni di casa, e di tutto un mondo – un modo di fare
– colmo fino a traboccare di convenzioni e formalità così false da traviare i
loro stessi propositi.
Il personaggio di Penelope fa da
cardine alle dinamiche dei rapporti di forza tra i personaggi, con la sua etica
personale, il suo impegno morale e civile, violentata dalle accuse degli altri
e in particolare del marito. Sarà sempre lei a riportare all’argomento, alla ragione
dell’incontro, della quale spesso si perdono le tracce. Qual è l’energia vitale,
che li tiene legati, stretti assieme, la forza centrifuga che gl’impedisce di
uscire dall’appartamento? Forse il desiderio di verità da parte di tutti, o di
giustizia per la parte lesa, forse il desiderio di capire fino a che punto sono
marci, di provare per una volta la sensazione di essere ancora vivi.
“Carnage” è un elegante balletto
sul filo delle parole, gettate l’un l’altro dai personaggi come vomito, un
gioco al massacro dal sapore bunueliano – come non ricordare “L’Angelo
Sterminatore” -, un esperimento in vitro che fa luce sui comportamenti e sul
modo di pensare di un certo milieu
sociale.
Il fulcro morale è rappresentato
dal personaggio di Penelope mentre il movimento interno va dall’alleanza tra le
donne in contrapposizione a quella tra gli uomini, alla rottura interna alle
coppie, fino alle accuse reciproche tra i due uomini, tra le due donne, tra
Penelope e Alan che si odiano.
Tutti i personaggi hanno il loro
momento di verità, in cui, aiutati dall’alcol, mettono a nudo il loro cuore, o
ciò che ne resta. Esilarante in questo senso la reazione di Alan
all’annegamento del suo cellulare. Si avverte in ogni istante che stiamo
osservando un momento critico della vita di personaggi profondamente tristi, che
ci fanno molto ridere.
Memorabile la prova d’attrice di
Jodie Foster, con accenti di nevrosi, soprattutto nella mimica facciale, che
ricorda certi personaggi di Kubrick, l’identificazione ineguagliabile nel
personaggio da parte di Cristoph Waltz, alter ego del regista.
Lo spazio è claustrofobico, si
aprono le finestre, si spruzza il profumo sul vomito, ci si riflette negli
specchi, invano, solo tentativi sprecati o controproducenti di un anelito alla
libertà, ad uscire da quelle pareti, dalla situazione critica, per ritornare
alla sicurezza della propria morale, se c’è, e della propria vita sociale. Dopo
il drink cadono le differenze di status sociale, tutto viene appiattito,
quattro personaggi ridicoli disarmati dalla loro stessa ipocrisia.
È un film parlato, che non
tradisce la sua origine teatrale e nello stesso tempo disegnato, nell’unità di
tempo e d’azione, da impeccabili, avvolgenti, movimenti di macchina e da
prospettive grandangolari irripetibili. Scorre come un film di Romher, forse
più amaro, ma non meno appagante. Si avverte l’ossessione da parte del regista
per il dettaglio sia per quanto riguarda la messa in scena, il lavoro con gli
attori, sia per l’arredamento, in particolare la posizione in determinati
momenti degli oggetti simbolici.
I personaggi piangono, noi
pubblico, ridiamo. Sogghigniamo alla risposta di Michael a sua moglie, quando
lei gli dice, “Perché devi sempre dire che sono una scrittrice?”, e lui,
“Perché hai scritto un libro”, o del fatto, incredibile per i due padroni di casa,
che la torta è in frigo, quindi gelata, e la
Coca Cola nella dispensa, quindi calda. Le
conseguenze di queste irrimediabili distrazioni – falle imperdonabili in
un’organizzazione familiare impeccabile – non si faranno attendere.
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