Nero opaco
Non accorgendomi di ciò che stavo
facendo sorbivo da bicchieri di vetro fatti dalla sabbia un liquido liquoroso a
temperatura ambiente, leggermente acido. Il contenitore divenne presto il
contenuto e tutte le sue qualità innate si riversarono in me senza che fosse
trascorso il barlume di un istante. Io divenni il contenuto e al contempo il
contenitore di un succo liquoroso che non mi abbandonò se non alle prime luci
dell’alba. Era notte. Notte inoltrata di luna piena e stelle fioche.
La vite era stata piantata, molto
prima di essere piantata era stata seminata da mani sagge, occhi e orecchie
sagge che conoscevano l’intero processo del liquido per giungere ad una bocca,
uno stomaco e attraverso il sangue ad un cuore. Un cuore che batte ancora di estasi
per il liquido sorbito rosso come il più rosso fuoco. Il processo è durato
anni, anni di maturazione, ma avvicinandoci agli ultimi stadi, si potrebbe
parlare di mesi. Mesi di stagioni alternate, spesso instabili, per far sì che
il frutto a grappolo reagisse, resistesse e si rinforzasse grazie agli
impedimenti. Stagioni di pioggia e di secca, cura continua protratta da mani
esperte, tutto per colmare un bicchiere trasparente ora tinto di rosso, per
colmare un corpo già rosso all’interno ora più rosso.
Le disamine cominciarono a
perpetrarsi attraverso la parola e il liquido a tramutarsi in linguaggio per
ingannare il tempo nel suo vero senso in un giro di parole spesso monche
distese su un discorso inconcluso. Non era importante l’utenza, l’oggetto, tanto
meno il soggetto del discorso, quanto importante era la continuazione del
processo, la trasformazione e trasmutazione che dalla terra aveva attecchito in
un corpo pensante. Lontano da ogni necessità perentoria e da quel corpo era il
pensiero tutto proteso in frasi, ricolmo di nettare che apriva le porte
all’istinto. L’istinto si tramutò in linguaggio, il linguaggio in ascolto,
l’ascolto in reazioni diagonali di sorrisi alternati a piccole gioie e
perplessità. Una parola spesso dimenticata s’insinuava spesso nel discorso, era
la parola libertà, mai in realtà pronunciata, la libertà dell’atto della parola
espressa a tutto spiano sulle corde di una necessità, quella di ingannare il
tempo. La libertà di espressione a tutti i livelli, conscio, preconscio e inconscio
spesso, quasi mai determinati, ma lasciati liberi, mescolati, liquefatti dal
nettare, quasi colorati di rosso.
Giunse la notte, le sfere
nell’alto e nel profondo pulsavano. Il sonno dopo il ritorno s’impossessò di
ogni diagramma appena abbozzato. La sensazione del possesso del linguaggio.
Sensazione vana perché illimitata. Due paia di occhi femminili, quattro file di
denti, quattro parti di labbra, gote appena tinte, calore, poi l’oblio. L’oblio
di ogni notte che segue al giorno che segue la notte. Il ricordo di stagioni
dove tutto era meno instabile, tutto colmo di stupore e sorpresa del divenire.
Ora irrompe una noia indeterminata, una noia costante da ingannare e tutto il
succo delle sere viene inghiottito dalle profonde gole della notte. Nero. Nero
opaco. Stige.
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