Francesco Fassbinder

Racconti, poesie, critiche di Francesco Santoro

martedì 11 giugno 2013

Sul nettare divino

Nero opaco


Non accorgendomi di ciò che stavo facendo sorbivo da bicchieri di vetro fatti dalla sabbia un liquido liquoroso a temperatura ambiente, leggermente acido. Il contenitore divenne presto il contenuto e tutte le sue qualità innate si riversarono in me senza che fosse trascorso il barlume di un istante. Io divenni il contenuto e al contempo il contenitore di un succo liquoroso che non mi abbandonò se non alle prime luci dell’alba. Era notte. Notte inoltrata di luna piena e stelle fioche.

La vite era stata piantata, molto prima di essere piantata era stata seminata da mani sagge, occhi e orecchie sagge che conoscevano l’intero processo del liquido per giungere ad una bocca, uno stomaco e attraverso il sangue ad un cuore. Un cuore che batte ancora di estasi per il liquido sorbito rosso come il più rosso fuoco. Il processo è durato anni, anni di maturazione, ma avvicinandoci agli ultimi stadi, si potrebbe parlare di mesi. Mesi di stagioni alternate, spesso instabili, per far sì che il frutto a grappolo reagisse, resistesse e si rinforzasse grazie agli impedimenti. Stagioni di pioggia e di secca, cura continua protratta da mani esperte, tutto per colmare un bicchiere trasparente ora tinto di rosso, per colmare un corpo già rosso all’interno ora più rosso.




Le disamine cominciarono a perpetrarsi attraverso la parola e il liquido a tramutarsi in linguaggio per ingannare il tempo nel suo vero senso in un giro di parole spesso monche distese su un discorso inconcluso. Non era importante l’utenza, l’oggetto, tanto meno il soggetto del discorso, quanto importante era la continuazione del processo, la trasformazione e trasmutazione che dalla terra aveva attecchito in un corpo pensante. Lontano da ogni necessità perentoria e da quel corpo era il pensiero tutto proteso in frasi, ricolmo di nettare che apriva le porte all’istinto. L’istinto si tramutò in linguaggio, il linguaggio in ascolto, l’ascolto in reazioni diagonali di sorrisi alternati a piccole gioie e perplessità. Una parola spesso dimenticata s’insinuava spesso nel discorso, era la parola libertà, mai in realtà pronunciata, la libertà dell’atto della parola espressa a tutto spiano sulle corde di una necessità, quella di ingannare il tempo. La libertà di espressione a tutti i livelli, conscio, preconscio e inconscio spesso, quasi mai determinati, ma lasciati liberi, mescolati, liquefatti dal nettare, quasi colorati di rosso.


Giunse la notte, le sfere nell’alto e nel profondo pulsavano. Il sonno dopo il ritorno s’impossessò di ogni diagramma appena abbozzato. La sensazione del possesso del linguaggio. Sensazione vana perché illimitata. Due paia di occhi femminili, quattro file di denti, quattro parti di labbra, gote appena tinte, calore, poi l’oblio. L’oblio di ogni notte che segue al giorno che segue la notte. Il ricordo di stagioni dove tutto era meno instabile, tutto colmo di stupore e sorpresa del divenire. Ora irrompe una noia indeterminata, una noia costante da ingannare e tutto il succo delle sere viene inghiottito dalle profonde gole della notte. Nero. Nero opaco. Stige.

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